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IL GIORNO CHE AVREI VOLUTO VIVERE

25 dicembre 800 / Quella voce in falsetto di Carlo Magno

di Alessandro Barbero

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18 Agosto 2009

È mattina presto, ma i vicoli intorno a San Pietro, la scalinata e il cortile della basilica brulicano già di gente. Immagino che alla messa di Natale officiata dal Papa i fedeli accorrano sempre in massa; ma stavolta c'è una ragione in più per non mancare, la stessa che ha portato qui anche me. Tutti sanno che Carlo, gran re dei Franchi e dei Longobardi, è a Roma e che stamattina sarà acclamato imperatore e augusto.

Sono secoli che i romani non assistono a una cerimonia del genere, ma il suo ricordo non è andato perduto, e non c'è abitante dell'Urbe che non voglia essere qui oggi, a sentirsi ancora una volta civis romanus. Ho fatto bene a venire di buon'ora, perché altrimenti rischiavo di non poter entrare.

Attraversare alla luce della luna questa Roma dell'Anno Domini 800 è stata la prima sorpresa. Generazioni di storici ci hanno ripetuto che questi sono secoli bui, e che la Città è ridotta all'ombra della sua antica grandezza, un guscio vuoto dove vivono appena 50mila persone, mentre al tempo dei Cesari ce n'era un milione. Forse dovremmo piuttosto pensare che in questa Europa rurale e spopolata 50mila abitanti sono una cifra favolosa: tanto più che abitano, lavorano e mangiano in uno spazio urbano dove in mezzo alle casupole e agli orti continuano a ergersi i colossali edifici dell'Antichità e le trionfanti basiliche costantiniane.

È vero che i quartieri abitati si alternano a lande disabitate, a prati e sterpaglie dove pascolano greggi di pecore e mandrie di bovini; ma quando ci si addentra fra le case e i cortili si sentono parlare tutte le lingue, s'incontrano mercanti ebrei, greci e siriani, monaci armeni o abissini, pellegrini spagnoli o britanni: perché questa città è ancora sospesa fra l'Oriente greco e l'Occidente barbarico, ed è sempre un ombelico del mondo.

Per entrare in San Pietro bisogna già sgomitare. Questo è un altro dei motivi per cui sono qui: vedere con i miei occhi quest'edificio che nessuno ha più potuto vedere da cinquecento anni, da quando i Papi del Rinascimento l'hanno demolito e Michelangelo e Bernini l'hanno rimpiazzato con il San Pietro di oggi. Le altre basiliche paleocristiane ancor oggi esistenti impallidiscono in confronto con questo San Pietro perduto, con la poderosa scalinata d'accesso, il cortile lastricato di porfido, le colonne e le travature gigantesche delle cinque navate, l'oro scintillante dei mosaici. All'interno della basilica la folla si pigia così fitta che odori di ogni sorta, di corpi umani e di roba da mangiare, si alternano alle ondate d'incenso scagliate dai turiboli e al sentore di fumo delle migliaia di candele accese; e benché fuori la mattinata sia tersa e gelida, qui dentro fa perfino caldo.

Sono qui già da un pezzo e non succede niente, tranne ogni tanto l'arrivo di una famiglia di nobili, dai vestiti intessuti d'oro, che avanzano orgogliosi fino alle prime file. Non so che ora sia e del resto non lo sa nessuno, orologi qui non ne esistono. Il mattutino è già suonato da un pezzo, ma quanto tempo manca all'inizio della cerimonia è impossibile saperlo, e comunque nessuno se lo chiede: si aspetta, e basta. Poi, però, sentiamo il rumoreggiare della folla che si accalca all'esterno, punteggiato di acclamazioni, e un attimo dopo le campane cominciano a suonare a distesa: evidentemente, Papa Leone ha aspettato l'arrivo del re prima di far cominciare la messa.

La marea di teste umane verso l'ingresso della chiesa comincia ad aprirsi, come il Mar Rosso davanti a Mosé, e nel vano della porta si staglia un gruppo di uomini e donne di alta statura, superiori di tutta la testa rispetto agli indigeni. In mezzo a loro ce n'è uno più alto di tutti: Carlo Magno è arrivato, accompagnato dai suoi figli e soprattutto dalle figlie, da cui non si separa mai, tanto che a questo proposito sono nati pettegolezzi poco simpatici.

Mi sono messo in posizione strategica, e il re mi passa così vicino che potrei toccarlo. Gli archeologi non hanno mentito: è davvero alto un metro e novanta. E non ha mentito il suo biografo Eginardo: ha proprio la testa rotonda, il collo taurino, la pancia prominente, e folti capelli argentati, e gli occhi vivaci. È vero anche quello che si racconta a proposito della sua voce: perché mentre mi passa accanto Carlo dice qualcosa a una delle figlie, e davvero ha una vocina sottile, perfino un po' ridicola per un colosso come questo. Naturalmente porta i baffi, come tutti i franchi attorno a lui, e non la lunga barba bianca che più tardi gli attribuiranno le canzoni di gesta. Questi lunghi mustacchi cadenti, ingrigiti dagli anni, sono l'unica cosa minacciosa in lui; altrimenti dà l'impressione di un uomo allegro e rumoroso, a cui piace divertirsi.

Va a piantarsi davanti all'altare, s'inginocchia sul primo gradino, e tutta la folla s'inginocchia con lui; non ci sono banchi, la messa si segue stando in piedi o in ginocchio, anche quando dura ore come questa messa grande di Natale. Un movimento brusco gli fa scivolare la fibbia del mantello, e qualcuno si affretta ad aggiustarla: si vede che il re non è abituato a portare la clamide purpurea, né la tunica lunga e gli scarpini di seta del costume romano, e che sarebbe molto più a suo agio con le brache, la pelliccia e le pezze da piedi dell'abito franco. Ma certe volte bisogna fare dei sacrifici, e il Papa gli ha spiegato che se uno vuole essere acclamato imperatore romano bisogna che almeno quel giorno si vesta alla romana.

  CONTINUA ...»

18 Agosto 2009
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